Referendum sul taglio dei parlamentari, “c’è chi dice no”

Il 20 e 21 settembre i cittadini italiani sono chiamati a votare per confermare o respingere la legge che cambia gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione, quelli che stabiliscono il numero di deputati e senatori. La legge, approvata in Parlamento da quasi tutti i grandi partiti, prevede la riduzione del 36,5% del numero dei parlamentari (da 945 a 600), portando per la precisione i deputati da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200. Si tratta di un referendum costituzionale, il cui svolgimento è previsto dalla Costituzione stessa all’art. 138, il quarto nella storia della Repubblica, che non ha bisogno di nessun quorum. In questo caso vince l’opzione con più voti, a prescindere dall’affluenza.

Questa consultazione è stata rimandata durante l’emergenza covid e oggi viene riproposta insieme al voto per il rinnovo di 7 Regioni e di circa 1000 comuni, ma con uno scarso dibattito, almeno per quanto attiene alla capacità di raggiungere larga parte della popolazione, sul merito del quesito e su tutte le sue criticità. A parere di chi scrive, l’approvazione di questa riduzione farà più male che bene, con effetti collaterali negativi per le Istituzioni e per i cittadini. Proviamo a spiegare perché.

L’Italia, è sempre bene ricordarlo, è una Repubblica parlamentare. Ciò significa che trova il suo perno, dal punto di vista istituzionale, nel legame diretto tra cittadini che votano e Parlamento che viene eletto. Dal confronto e dalle maggioranze possibili nei due distinti rami di Camera e Senato scaturisce poi il Governo e la scelta del Presidente della Repubblica. Con la riduzione del numero dei parlamentari si indebolisce nel numero e nel concreto funzionamento l’unico Organo costituzionale nazionale eletto dai cittadini, cui è demandato, almeno sulla carta, il potere legislativo. Ipotizzare un sistema diverso per l’Italia è legittimo, e secondo alcuni, necessario. Così come è legittimo opporsi a una revisione sostanziale dell’assetto istituzionale deciso nella Costituzione del 1948. Ma in questo caso la modifica costituzionale al vaglio del referendum non ha alcun piano complessivo, è solo un taglio lineare dei posti in Parlamento, al punto che appare discutibile anche la stessa definizione di “riforma”. Un minor numero di persone svolgerà le stesse funzioni, in plenaria e nelle commissioni, con gli stessi requisiti per avanzare proposte, presentare mozioni, creare gruppi. Stesso potere, dunque, ma nelle mani di meno persone. Soprattutto al Senato, composto da sole 200 persone che saranno determinanti per la vita o la sfiducia del governo e per l’ultima parola su ogni singola legge, in base al principio tutto italiano del “bicameralismo perfetto”, secondo cui Camera e Senato hanno lo stesso ruolo e devono approvare uno stesso testo “in fotocopia” prima che questo entri in vigore. Ci sarà ancora più spazio, quindi, per clientele, fazioni di natura non programmatica e gruppi di interesse per esercitare la propria pressione su singoli parlamentari che, decisivi in ogni alzata di mano, potranno ricavare vantaggi da condotte trasformiste. E a nulla vale chiedersi, in modo astratto, se con 345 posti in meno saranno scartati i “migliori” o i “peggiori”. Il problema della selezione della classe politica resta ancora una volta rinviato, in attesa di una riforma elettorale che premi scelte più libere e di una moderna regolamentazione dei partiti, che – venuti meno da almeno 20 anni alla loro funzione di organizzare la vita civile e politica tra la gente – si limitano ad essere contenitori e marchi, la cui proprietà è nelle mani di pochissimi referenti nazionali. E con un minor numero di persone da portare in Parlamento, chi credete che sceglieranno i segretari o i titolari dei simboli? Ancora di più i presunti fedelissimi o gli esponenti di lobby in grado di sostenere una campagna elettorale. O, se preferite l’espressione, “comprarsi” una candidatura.

A chi si ritiene sensibile verso i costi della politica, non sfuggirà inoltre che questa riforma non riduce di un centesimo stipendi e rimborsi per chi siede in Parlamento. Con 345 parlamentari in meno, il risparmio di un cittadino italiano sarà di 90 centesimi l’anno. Si consuma, pertanto, il fatale errore di aver mischiato, confuso e sovrapposto il tema della tenuta del bilancio dello Stato con quello del funzionamento delle Istituzioni e della rappresentanza democratica. Perché con un minor numero di parlamentari, a parità di popolazione italiana e con qualsiasi legge elettorale, il rapporto eletti/elettori sarà inferiore rispetto a quello voluto dai costituenti e tra i più bassi attualmente in Europa e ci saranno inevitabilmente settori della società italiana meno (o per niente) rappresentati. Come quelli che votano per formazioni politiche più piccole e di minoranza, per non parlare del paradosso secondo cui, con il vigente sistema di elezione del Senato su base regionale, per un tecnicismo difficile da credere e da spiegare, ci saranno Regioni come il Trentino il cui voto dei cittadini, preso singolarmente, vale di più di quelli della Calabria (!).

Infine, una considerazione su come questa riduzione dei parlamentari si inserisce in un processo intrapreso intorno al 2008 che ha visto gradualmente l’eliminazione delle circoscrizioni di quartiere, la riduzione dei consiglieri comunali e degli assessori di giunta, così come degli onorevoli che siedono in Regione e la trasformazione delle province in organismi non elettivi. Sono ormai più di 10 anni che in Italia i cittadini scelgono direttamente sempre meno persone a cui affidare cariche politico-istituzionali. E gli effetti sul rapporto cittadini-Istituzioni e sul proficuo funzionamento di queste ultime non possono dirsi positivi. A tutti i livelli, a partire dagli Enti locali fino a quelli più alti.

Avere più rappresentanti democraticamente eletti, in un Paese vivace dal punto di vista civile e cosciente su quello politico, non ha mai fatto male alla democrazia e alla condivisione delle scelte. Avere meno rappresentanti, invece, può diventare un problema. Che va segnalato e che dovrebbe essere affrontato in ogni caso, ma che apparirà ancora più evidente in caso di affermazione di questa legge di modifica costituzionale.

Scritto da Dario Chiocca


Classe '78, è tra i fondatori de L'Iniziativa, di cui è presidente. Puteolano, è cresciuto nel quartiere di Monterusciello, dove risiede. Laureato in Giurisprudenza, impegnato da sempre sulle questioni sociali, anche nei movimenti studenteschi e nelle organizzazioni sindacali, dal 2010 è avvocato presso il Foro di Napoli e svolge la sua attività professionale nel campo nel diritto civile e del lavoro. In ambito di normativa del lavoro, si occupa inoltre di formazione.