Rubrica Arte & Cultura / Il “Tempio di Serapide” di Pozzuoli: perla rara da difendere

É detto impropriamente “tempio di Serapide” perchè nel 1750, durante il primo scavo, vi fu rinvenuta una statua del dio greco-egizio Serapis, il cui culto era diffuso a Pozzuoli, che è attualmente conservata nella sezione egizia del Museo Archeologico di Napoli. I primi scavi vennero effettuati, durante una fase di bradisismo positivo, sotto il regno di Carlo III di Borbone tra il 1750 e il 1756. Il sito, in cui emergevano tre colonne in marmo cipollino, era perciò denominato anche “vigna delle tre colonne”. La struttura fu poi riportata integralmente alla luce con gli scavi successivi, risalenti ad un periodo tra il 1806 e il 1818. Solo nel 1907 lo studioso francese Charles Dubois attribuì all’edificio la funzione di macellum: un mercato alimentare, costruito non lontano dall’emporium della città romana, tra la fine del I e gli inizi del II sec. d.C., e restaurato in età severiana.

Oltre l’inestimabile valenza storica per il territorio flegreo, interessante è anche l’aspetto scientifico del macellum: le tre colonne oggi visibili, essendo corrose dai litodomi (molluschi marini che scavano nella pietra), documentano infatti la variazione di livello delle acque termominerali che hanno invaso il recinto del monumento, variazione dovuta al fenomeno del bradisismo. Il suolo su cui sorgeva il “tempio”, che naturalmente si trovava a livello delle acque in età romana, si è infatti progressivamente abbassato negli ultimi secoli del Medioevo fino al ‘500. Questi continui movimenti tra ‘700 e ‘800 hanno però creato problemi non solo di ordine archeologico, ma anche igienico e sanitario, proprio a causa delle acque infette.

IL SITO ARCHEOLOGICO – Il sito si estende in un’area rettangolare al centro della quale vi era un cortile circondato da un portico di trentasei colonne di granito con capitelli corinzi, decorati da conchiglie contenenti piccoli delfini, ora visibili solo in parte. Una struttura che riprende quella dei mercati orientali e dei mercati di Napoli e Pompei. Quattro di queste colonne, di cui tre ancora in piedi e una quarta rovesciata sul pavimento, si distinguevano dalle altre per la diversa tipologia di marmo, di cipollino anziché di granito, e per le maggiori dimensioni. La loro maestosità serviva a fare da facciata monumentale ad un grande ambiente semicircolare posto in fondo sul lato orientale del complesso, verso il quale molto probabilmente doveva volgere lo sguardo dello spettatore.

Proprio all’interno delle tre nicchie, una centrale e due laterali più piccole, che concorrevano a costituire tale ambiente furono rinvenute due basi di statue con iscrizioni in onore di Alessandro Severo e di sua moglie Barbia Oriana. Altre, ancora, rappresentanti le divinità protettrici dei mercati, la statua di Serapide (da cui il nome del “tempio”), i gruppi di Oreste ed Elettra e di Dioniso con il Fauno.

Sui lati lunghi del rettangolo in cui è inscritto il cortile porticato vi sono invece le diverse botteghe, le tabernae, undici per lato, con ingressi che si aprono alternativamente sul portico e su una via antica che cingeva tutto il complesso. Sul lato occidentale, verso il mare, appaiono sei ambienti doppi, tre a sinistra e tre a destra dell’ingresso antico dell’edificio, riservati alla vendita della carne e del pesce.

All’estremità di tutto il lato Est, sono poi ben visibili due latrinae considerate fra le più eleganti che ci siano pervenute dall’antichità, illuminate da tre finestre, con nicchie per statue, con banchi marmorei forati e relativo canale di scarico che garantiva dunque un perfetto sistema igienico.

All’interno del cortile si trova poi un edificio circolare: la thòlos. Sebbene sia oggi fortemente danneggiato, i numerosi frammenti di membrature architettoniche che sono pervenuti, hanno dato agli studiosi la possibilità di ricostruire la sua struttura originaria. L’accesso all’ambiente, sopraelevato rispetto al piano del cortile, era possibile grazie alla presenza di quattro scalinate. Sedici colonne corinzie di marmo africano sorreggevano un architrave e un fregio riccamente decorato su cui innestava una cupola, probabilmente conica. Al centro della thòlos si trovava infine una grande fontana ottagonale. Come è indicato dall’iscrizione dedicatoria, la thòlos e l’ambiente semicircolare sembrano essere stati riedificati più tardi, all’epoca dei Severi (inizi III secolo d.C.), a differenza dell’intero complesso risalente invece all’età flavia.

L’ingresso monumentale, il pavimento in marmi policromi, la presenza della statue rinvenute, facevano della thòlos e dell’ambiente semicircolare circostante un grande santuario dedicato al culto delle divinità protettrici delle fortune e dei commerci della città.

LA MANCATA VALORIZZAZIONE – Ancora una volta ci troviamo di fronte ad una situazione di mancata valorizzazione, nonché un limite di ordine pratico per chiunque voglia accedervi. Il sito è infatti visitabile (tutti i giorni, da non pochi turisti stranieri) solo dall’esterno, nonostante un Protocollo di intesa tra Comune di Pozzuoli, Soprintendenza e Regione Campania preveda la possibilità di prenotare le visite presso un info-point comunale (mai nato), avvalersi di guide proprie e ricevere l’autorizzazione alla visita da parte della Soprintendenza.

Sporadici gli eventi che hanno visto accendere i riflettori sul macellum, come quelli organizzati in occasione del Premio Civitas, che lo scorso 29 maggio ha visto la preziosa presenza del compositore torinese e direttore d’orchestra Ezio Bosso. Proprio ad apertura della serata fu presentato un innovativo progetto di illuminazione, opera del light designer Filippo Canata, che sembrava dover dare finalmente splendore ad uno dei simboli puteolani. Nonostante le prove tecniche di illuminazione fatte nei mesi scorsi, il sito è però tutt’ora lasciato al buio.

Promozione del territorio e possibilità di sviluppo occupazionale nel settore dei beni culturali sono da sempre oggetto della nostra attenzione. Conoscere e riconoscere il patrimonio è fondamentale per far sì che nasca in ogni cittadino un senso di protezione e civico, al fine di creare una sinergia con le istituzioni volta alla valorizzazione e fruizione dello stesso.

Scritto da Martina Iacuaniello


Classe 1990. Vive tra Roma e Napoli, ed è da sempre appassionata di arte, letteratura e politiche culturali. Dopo aver conseguito la laurea in Conservazione dei Beni Culturali presso l'università Suor Orsola Benincasa di Napoli, è attualmente iscritta alla magistrale in Storia dell'arte alla Sapienza di Roma.