L’Italia non sa spendere i soldi dell’Unione Europea

Dei fondi del bilancio dell’Unione Europea nel settennio 2014 – 2020 solo il 30% è stato effettivamente speso in Italia. La difficoltà dell’Italia nel programmare, allocare e poi effettivamente spendere i fondi dell’Unione sono già note, e gli esperti indicano tra le cause principali la scarsa qualità del personale amministrativo e burocratico. I dipendenti della pubblica amministrazione italiana, infatti, hanno in media 50 anni, e solo 4 su 10 hanno una laurea. Ma soprattutto nella PA mancano le competenze dei professionisti: statistici, esperti digitali, architetti, ingegneri, geologi e pianificatori del territorio. Queste figure sono essenziali perché i fondi dell’Unione Europea riguardano ambiti specifici come la competitività, la digitalizzazione nella scuola, la parità sociale, i dissesti idrogeologici, la mobilità nelle città. E di loro l’Italia ne ha un estremo bisogno, specie in vista delle risorse in arrivo con il programma Next Generation EU.

Ma è solo un problema di struttura del personale? No, è anche politico. Perchè sono innanzitutto idee, sia in termini di tensioni ideali (come quelle attraversarono l’Italia nel dopoguerra), sia in termini programmatici, intesa come capacità di chi governa di trovare soluzioni concrete a problemi reali.

Cosa è Next Generation EU? – È uno strumento di ripresa di 750 miliardi di euro per creare un’Europa post Covid-19 più ecosostenibile, digitale e adeguata alle sfide presenti e future, finanziato con risorse raccolte sul mercato finanziario e un debito comune di tutti i Paesi dell’Unione. Oltre al valore storico e politico di questo scatto dell’Unione Europea, c’è quello concreto e materiale.
Secondo i primi calcoli i miliardi destinati all’Italia sono ben 209, di cui 127 in prestiti e 81 in sussidi. Nella prima versione del Recovery Plan presentato dal Governo Conte – sul quale è in corso un dibattito politico con non poche posizioni strumentali – i progetti messi nero su bianco prevedono per ora 196 miliardi di spesa e sono ripartiti in voci come digitalizzazione, competitività e cultura, transizione ecologica ed energica, infrastrutture, istruzione e ricerca, coesione sociale. Pochi spicci, infine, anche per la salute (9 miliardi, solo il 4,6% del totale), nonostante tutte le fragilità dimostrate dal sistema sanitario durante la pandemia da covid-19.


E le politiche del lavoro giovanile? Non pervenute. O meglio, solo l’1% dei fondi derivanti dal Next Generation EU sono destinate al lavoro dei giovani, i quali sono stati quelli maggiormente colpiti dalla pandemia, che “ha avuto l’effetto di acuire i divari preesistenti nella partecipazione al mercato del lavoro” come ha sottolineato il presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo.

Insomma in un piano dedicato alle Nuove Generazioni Europee (Next Generation EU) l’Italia stabilisce solo l’1 percento – circa 2,8 mld – alle politiche del lavoro e ai giovani, contro il 5,7 percento della Spagna e l’11,6 percento della Francia. Una scelta contro cui, per ora, i giovani organizzano la protesta online, attraverso petizioni che chiedono un ripensamento da parte del Parlamento italiano sulla ripartizione dei fondi a favore delle politiche del lavoro giovanile (http://chng.it/54qdqfwfrS) e condivisioni online con l’hashtag #UnoNonBasta.

Scritto da Stefania Manfredi


Stefania Manfredi nasce a Napoli nel 1990. Cresce a Monterusciello e da sempre interessata alla politica si avvicina all'associazione L'Iniziativa nel 2011. Appassionata di lingue e culture straniere, studia all'Università Federico II di Napoli.