La società post-lockdown: abbiamo superato davvero l’isolamento sociale?

Durante l’intero periodo di quarantena, si è avuto un vero e proprio bombardamento mediatico circa la necessità del distanziamento sociale, ma anche circa i danni comportati da tale isolamento. Il dibattito riguardo la consapevolezza dell’impatto psicologico e sociale del lockdown e l’importanza di mettere in atto dei meccanismi di salvaguardia dell’equilibrio psicologico è stato portato avanti da diversi istituti di ricerca e associazioni di psicologi e psichiatri. Nel mese di maggio, le Nazioni Unite hanno presentato un rapporto circa l’impatto dell’epidemia da Covid sulla salute mentale globale, da cui è emersa la necessità di un sostegno psicologico sia durante che dopo la pandemia per tutta la popolazione. In Italia, la Società Italiana Psichiatri (SIP) ha riscontrato lo sviluppo della cosiddetta “sindrome della capanna” – ovvero della persistenza di una forte paura nell’abbandonare le mura domestiche, percepite come safe zone anche in seguito alla fine della quarantena – in più di un miliardo di abitanti nel Mondo. Il CNR e l’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali hanno condotto un’indagine durante il lockdown da cui emerge che le preoccupazioni economiche degli italiani sono decisamente forti, seconde solo alle preoccupazioni rispetto alla salute. Molti psicologi non hanno mancato di sottolineare come i disturbi psichici individuali siano direttamente correlati alle disfunzioni sociali e della comunità.

SOFFRIRE DI ISOLAMENTO, PRIMA E DOPO IL LOCKDOWN – Quest’ultimo aspetto appare centrale. Nei mesi scorsi i mass media hanno spesso posto l’accento sull’alienazione da quarantena. Ma prima? Com’era la nostra società, da questo punto di vista, prima della pandemia? La tendenza all’isolamento già c’era, sebbene in maniera più subdola. Si tratta dell’isolamento implicito derivante da un marcato individualismo, sintomatico dell’assetto politico, economico, sociale e culturale della società post-moderna. Non a caso, tale aspetto assume particolare rilievo all’interno delle attuali ricerche sociali e politiche, nonché della produzione accademica di numerosi filosofi, sociologi e politologi. Esemplificativo in tal senso è il concetto di “società liquida” definito da Bauman, ad indicare una società in cui vengono meno i corpi intermedi ed i connettori sociali e si afferma progressivamente una fluidità ed una volatilità in tutti gli aspetti del vivere collettivo, insieme ad un’elevata percezione della solitudine. In tale contesto, l’affermazione della velocità a discapito della durata, la mistificazione della flessibilità, il culto del consumismo sono solo alcuni dei risvolti dell’organizzazione della società post-moderna.

Analizzando diversi aspetti della vita di un individuo all’interno di questo modello di società, tali risvolti risultano tangibili in una pluralità di contesti: in ambito lavorativo, la flessibilità si è affermata come nuovo mantra negli ultimi decenni e la maggior parte dei contratti è a tempo determinato e con scarse tutele di welfare, rendendo estremamente difficile il raggiungimento di una stabilità personale. Se a ciò aggiungiamo la piaga della disoccupazione, va da sé in che misura il mondo del lavoro risulti ad oggi escludente ed estremamente competitivo. Per quanto riguarda la formazione, al paradosso mai superato di un’istruzione formalmente di massa ma sostanzialmente escludente per via di fattori sociali ed economici, è subentrata a partire dagli anni ’90 la tendenza ad incrementare dinamiche competitive, soprattutto nelle Università, attraverso criteri fortemente meritocratici. In tal senso, gli studenti e le studentesse sono abituati prima ancora di entrare in università a considerarsi dei competitor, dato il numero limitato di borse di studio e in molti casi anche il numero chiuso per ciò che concerne l’iscrizione a determinati corsi di laurea. Ad oggi, tra l’altro, al netto di singole misure tutt’altro che sufficienti, come le (poche ed esigue) borse di studio disponibili e la No Tax Area fino a 13000€, non sussiste un piano strutturale che elimini le barriere di accesso all’università in termini economici. L’impostazione familistica relativa ai requisiti economici inerenti il diritto allo studio deresponsabilizza le istituzioni da un investimento serio in ambito formativo, che viene declinato piuttosto come un investimento familiare, impedendo agli studenti un’effettiva emancipazione. Ne consegue una situazione frustrante e in molti casi economicamente insostenibile: ciò fa sì che numerosi studenti siano costretti a lavorare per pagarsi gli studi, riducendo la quantità e la qualità del tempo dedicato alla formazione e rendendo difficile, se non impossibile, vivere i luoghi della formazione all’insegna dello scambio di idee, della socialità e del fervore intellettuale. In tal senso, gli Atenei divengono sempre più degli esamifici tesi a sfornare merce umana per il mercato del lavoro e gli studenti dei singoli individui impegnati nel raggiungimento del titolo accademico nel più breve tempo possibile. Un’impostazione perfettamente coerente con il mantra della velocità di cui si parlava sopra. Rispetto alla dimensione insana che ha assunto la formazione, declinata in tal modo, è tristemente noto il caso dei suicidi da parte di studenti universitari all’interno degli Atenei, con numeri che non consentono di parlare di “casi isolati”.

Per quanto riguarda la vita personale, è risaputo che ad oggi ci sia una tendenza a riprodurre modelli individualisti e consumistici anche nelle relazioni interpersonali. Ciò non può sorprendere, dal momento che gli schemi attraverso cui si declina la società pervadono facilmente ogni aspetto del vivere sociale. La sfera politica, economica, sociale e culturale, così come quella pubblica e privata, non possono essere viste come scompartimenti separati, bensì come tasselli di un medesimo insieme, direttamente correlati.

Allo stesso modo, non può sorprendere che anche il divertimento, o più in generale la ricerca di svago e momenti ricreativi, nella maggior parte dei casi, assuma le connotazioni di un prodotto di massa di scarsa qualità, al netto di alcune realtà sociali che provano a costruire degli spazi di socialità alternativa. A tal proposito, il dibattito istituzionale e mediatico rispetto alla cosiddetta “movida” risulta alquanto superficiale e non centra minimamente il punto della questione, concentrandosi piuttosto su uno sterile pro/contro e su un opinionismo da reality show – così come avviene di fatto per la maggior parte dei temi di discussione, per incapacità e/o malafede. Il caso più recente in tal senso è chiaramente scaturito dai festeggiamenti in occasione della vittoria della Coppa Italia da parte della squadra di calcio del Napoli, durante i quali sono venute meno tutte le norme di distanziamento sociale. Rispetto non solo a quest’ultimo episodio citato ma soprattutto al tema generale della movida, emergono due interpretazioni diametralmente opposte: una che tende all’idealizzazione della ritrovata voglia di fare comunità da parte del popolo in seguito alla quarantena; l’altra che invece si basa su una forte colpevolizzazione di comportamenti giudicati irresponsabili. Ad un’analisi meno dicotomica, emergono diverse sfaccettature della questione. La rinnovata socialità in seguito alla quarantena rappresenta evidentemente un dato positivo, specie alla luce dei dati elaborati dagli psicologi di cui si parlava nella prima parte dell’articolo; di contro, sussiste tuttora la necessità di comportamenti che siano preventivi di un’eventuale nuova ondata. Nell’ambito della problematizzazione della vita sociale post-quarantena, una lettura che non sia superficiale né faziosa non può che rilevare come punto centrale la responsabilità istituzionale. Da questo punto di vista emerge infatti, soprattutto da parte degli enti locali, una schizofrenia nella gestione della pandemia: se in una prima fase si era dinanzi ad un atteggiamento fortemente restrittivo, nel momento in cui si individuava da parte della popolazione la necessità di una figura di guida, ad oggi il favore si riscontra tendenzialmente attraverso un atteggiamento in linea con il completo ritorno alla normalità – nonostante in alcuni Comuni, dopo settimane di azzeramento dei contagi, la curva dei positivi stia ricominciando, sebbene in misura minore rispetto ai mesi scorsi, a salire. Tale dato assume particolare rilievo in vista delle elezioni regionali, specie dal momento che anche la politica ha assunto una dimensione consumistica, vista la tendenza ad orientare il proprio atteggiamento istituzionale nel modo maggiormente favorevole alla captazione di consenso da parte dell’elettorato, secondo uno schema che imita il meccanismo di mercato di domanda e offerta. Per quanto riguarda le istituzioni nazionali, queste hanno la responsabilità di aver riaperto ad oggi tutte le attività. Anche queste in realtà danno segnali contraddittori. Da un lato, premono per il ritorno da parte del Paese a produrre e a consumare (anche attraverso il divertimento); d’altro canto, si evidenzia un accorato appello alla responsabilità, declinata però ad oggi su un piano totalmente individuale, dato che il Paese ha appunto necessità di “rimettersi in carreggiata”. L’aspetto da problematizzare in tal senso è la presenza di un duplice messaggio, derivante da duplici esigenze, difficilmente conciliabili all’interno del nostro sistema economico e politico.

ALLARME NUOVE GENERAZIONI – Il tema della movida fornisce un ulteriore spunto di riflessione, ovvero la colpevolizzazione dei giovani. Questo tipo di atteggiamento è indice della semplicistica individuazione di un nemico su cui vengono scaricate responsabilità che sono, di fatto, in primo luogo istituzionali. Occorre tornare a produrre e consumare nonostante il Covid non possa dirsi un pericolo del tutto sconfitto, dunque è necessario farlo coscienziosamente. Poco importa l’impossibilità da un punto di vista tecnico e logistico di riaprire determinati spazi senza creare assembramenti: se questi si creano, la colpa è dei singoli individui. Questa strategia comunicativa, oltre ad avere connotazioni fortemente paternalistiche, si rivela particolarmente frustrante nel caso dei giovani, dal momento che essi rappresentano una categoria fortemente abbandonata da parte delle istituzioni italiane. A tal proposito, è emblematico il caso del ritorno di massa al Sud da parte di numerosi giovani emigrati nelle regioni settentrionali nelle primissime fasi della diffusione dell’epidemia in Italia. Esodo che fu, di fatto, causato da una fuga di notizie da parte delle istituzioni. Questo tipo di comportamento istituzionale appare particolarmente discutibile, soprattutto dal momento che l’Italia non ha mai avviato un serio ragionamento rispetto all’emigrazione dei giovani – né interna alla nazione né verso l’estero – né tantomeno rispetto alle scarse prospettive occupazionali e nemmeno rispetto ai problemi concernenti la formazione. Per quanto riguarda la movida, è altresì evidente il ricorso ad un luogo comune nella narrazione dei “giovani che escono a fare baldoria”, la quale non tiene minimamente conto di dati che evidenziano la diffusione di una tendenza da parte dei giovani all’isolamento in senso stretto. A tal proposito, è emblematico il caso del cosiddetto fenomeno degli “Hikikomori”, nato in Giappone per poi diffondersi in Occidente, inclusa l’Italia. Si tratta di una nuova sindrome adolescenziale caratterizzata da una forte componente di misantropia e nichilismo, che si manifesta nella tendenza ad isolarsi nella propria stanza e a non avere in alcun modo una vita sociale. La diffusione di questo disagio in Italia è testimoniata dalla fondazione, nel 2017, dell’Associazione Hikikomori Italia da parte dello psicologo sociale Marco Crepaldi, proprio al fine di fornire informazione e supporto sul tema.

Se il fenomeno sopra descritto riguarda gli adolescenti e consiste in un preciso disturbo psichico, non è illogico correlarlo ai risultati raggiunti dalle indagini condotte negli ultimi anni da parte degli istituti di ricerca sociale riguardo il disagio giovanile in Italia. In tal caso, la fascia d’età presa in esame va dai 20 ai 30 anni. I dati in tal senso testimoniano una forte mancanza di fiducia nel futuro, la convinzione di non poter trovare un impiego soddisfacente, specialmente in Italia, ed un’elevata percezione della solitudine. Non a caso, questa viene spesso definita la generazione del “precariato esistenziale”, termine che evidenzia proprio come le criticità sociali ed economiche non possano che riflettersi anche sulla sfera personale e psichica dell’individuo. Appare evidente in tal senso che la mancanza di prospettive future si traduce in una difficoltà di emancipazione e realizzazione dal punto di vista non solo professionale e formativo, ma anche personale.

Anche nell’ambito circoscritto all’emergenza Covid, il dato della mancanza di fiducia da parte dei giovani appare confermato. Una recente ricerca dell’Osservatorio Censis – Tendercapital evidenzia come gli anziani siano molto più ottimisti rispetto alla vita post – covid e come invece i millennials (la generazione nata tra i primi anni ’80 e metà anni ’90) appaiano come la fascia anagrafica maggiormente pessimista. Dalla ricerca emerge anche un altro dato sconcertante, che vedrebbe circa la metà dei giovani favorevoli ad una penalizzazione degli anziani nell’accesso alle cure e nella competizione per le risorse pubbliche. Simili risultati mettono in luce diversi fattori. Essi sono certamente conseguenza di politiche istituzionali che effettivamente investono la maggior parte della spesa pubblica in previdenza sociale, elemento derivante in parte da un dato prettamente demografico; tuttavia, assieme all’oggettività demografica gioca un ruolo fondamentale l’assenza di strategie e di attenzione da parte delle istituzioni alla fascia giovanile ed il dispendio di risorse avvenuto nei decenni precedenti: negli anni ’80, l’Italia era tra i Paesi con le pensioni più generose e con età pensionabili tra le più basse. Il dato per cui l’attuale generazione giovanile sia la prima a vivere in condizioni che si prospettano peggiori di quelle della generazione precedente è esemplificativo di quanto la situazione appaia ad oggi ribaltata. Un elemento particolarmente allarmante sta infatti nel dato per cui ciò che emerge dalla ricerca sembra essere una sorta di rancore generazionale, piuttosto che conflitto generazionale. Se quest’ultimo infatti può risultare funzionale ad una ridefinizione positiva dello stato sociale, il primo si traduce più facilmente in un’ulteriore disgregazione della società civile e “guerra fra poveri”. D’altro canto un risultato del genere, seppur sconfortante, non può sorprendere considerata la retorica meritocratica e produttivistica di cui i millennials sono stati imbevuti sin dalla culla: gli anziani rappresentano una categoria improduttiva, a differenza dei giovani, a cui però vengono però fornite scarsissime possibilità. Ecco che scatta l’odio sociale. I giovani ad oggi rappresentano in Italia una delle categorie maggiormente escluse dalle strategie politiche strutturali. Si tratta di un dato oltremodo allarmante: un Paese che, di fatto, abbandona i giovani è un Paese che rinuncia ad avere un futuro.

Non è un mistero che, negli ultimi decenni, i disturbi di ansia e depressione siano aumentati vertiginosamente in tutti i Paesi industrializzati, tra la popolazione di tutte le età, ma la fascia maggiormente colpita sembra essere proprio quella giovanile. È evidente che questo modello di società sta producendo una generazione fragile, che vive certamente numerose contraddizioni. È tuttavia altrettanto evidente che questa generazione non ha costruito il mondo attuale, lo ha bensì ereditato. Allo stato dell’arte, ciò che i giovani hanno ereditato sono soprattutto criticità, nodi formatisi nel corso di decenni e che oggi stanno venendo al pettine. Più che aver ricevuto un’eredità, questa generazione appare piuttosto diseredata.

Risulta evidente un’amara realtà: l’isolamento sociale è tutt’altro che un fenomeno circoscritto al Covid – 19. Emerge la necessità, altrettanto evidente ed urgente, di fornire un antidoto al modello individualista ed estremamente competitivo, psicologicamente insostenibile, rideclinando la società in termini maggiormente collettivi e coesivi.

Scritto da Martina Brusco


Nata a Napoli nel 1996, residente a Pozzuoli. Studentessa di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. Entra a far parte dell’associazione e testata giornalistica “L’Iniziativa – Voce Flegrea” nel 2014, con il desiderio di coniugare la passione per il giornalismo e la politica all'impegno sociale sul territorio.