Allo stato attuale, ci troviamo nel pieno della famigerata “seconda ondata” del virus che, da circa nove mesi a questa parte, turba l’equilibrio dell’intera società globale nonché la vita di ciascun individuo: il Covid-19. Una seconda impennata dei contagi durante la stagione autunnale era stata sin da subito preannunciata dall’OMS e dalla comunità scientifica tutta. Ciò nonostante, dall’uscita progressiva dal lockdown dei mesi scorsi ad oggi, non sono stati previsti piani strutturali da parte delle istituzioni tali da impedire il ripresentarsi della dicotomia tra tutela della salute e tutela economica, la quale si ripropone oggi con prepotenza ancora maggiore rispetto alla scorsa primavera, suscitando paura sia da parte delle istituzioni che dei singoli individui.
DIFFERENZE CON LA PRIMA FASE – Attualmente, le contraddizioni sul piano sociale emerse già durante la prima fase della pandemia appaiono acuite e i contagi crescono più rapidamente rispetto alla scorsa primavera. Contestualmente, la risposta politico-istituzionale non si sta rivelando puntuale né efficace. Durante la prima fase, infatti, le restrizioni ai fini di contenimento del contagio sono giunte in maniera più tempestiva e sono apparse sin da subito maggiormente stringenti. Nel contesto dell’attuale seconda ondata, invece, fino a poco tempo fa le misure istituzionali sono state declinate su un piano meramente individuale e circoscritto a pochissime categorie – già di norma svilite nel caso del settore culturale e individuate invece come facile capro espiatorio nel caso della ristorazione. È solo con l’ultimo DPCM del 4 novembre, infatti, che vengono introdotte misure più restrittive. Di conseguenza, appare logico ritenere che, se durante la scorsa primavera le misure previste risultavano tese ad evitare che la situazione epidemiologica e sanitaria degenerasse, ad oggi pare che la risposta istituzionale sia mirata piuttosto a tamponare una situazione che ha già raggiunto un’elevata soglia di gravità. È doveroso specificare che per la maggior parte delle regioni italiane”, considerata alla prima settimana di novembre “a rischio moderato” e collocata all’interno della “zona gialla, le misure in realtà restano tuttora assai blande, mentre le misure più stringenti si applicano esclusivamente alle regioni considerate a maggiore rischio, in particolare per quelle della “zona rossa”. Per queste ultime si delinea uno scenario molto simile al lockdown vero e proprio, ma con la differenza sostanziale per cui, non essendo previste per il momento né l’imposizione dello smartworking al settore privato né tantomeno la sospensione della produzione, buona parte della popolazione delle zone rosse uscirà, di fatto, solo per andare a lavorare. La querelle tra enti locali e governo centrale rispetto alla suddivisione dell’Italia in diverse fasce di rischio è solo l’ultimo degli esempi nell’ambito del conflitto tra i vari livelli di governance, già presente durante la prima ondata ed ora esacerbato. A livello sociale e individuale, sia le misure previste che la classificazione delle zone di rischio ha incrementato in molti casi uno stato di confusione da parte della popolazione, che non riesce ad avere la percezione di quale sia l’effettivo grado di pericolo. È il caso in particolare della Campania, classificata in zona gialla a dispetto di qualsiasi aspettativa sia individuale che mediatica, i cui cittadini ad oggi si chiedono legittimamente se il rischio dunque era stato recentemente sopravvalutato oppure se viene sottovalutato attualmente: c’è da avere ancor più paura perché non viene garantito un adeguato livello di tutela o invece da tirare un sospiro di sollievo?
Il margine di intervento statale appare ridotto non solo a livello nazionale, bensì europeo. Al netto di una certa eterogeneità di misure più o meno stringenti tra i Paesi europei, sussistono infatti dei principali fili conduttori: la declinazione delle misure prevalentemente e/o dapprima su un piano individuale e nell’ambito delle medesime categorie e, soprattutto, la tardività di interventi adeguatamente restrittivi a fronte di una grave impennata di contagi.
IL FATTORE PAURA – Ma che ruolo ha avuto ed ha il fattore paura nella gestione istituzionale della pandemia che negli effetti di quest’ultima sul tessuto sociale? Facciamo un passo indietro. Come si è avuto occasione di analizzare nei mesi scorsi, durante la prima fase della diffusione del contagio in Europa, le istituzioni italiane erano state le prime a mettere in atto misure drastiche e coraggiose contro la diffusione dell’epidemia. L’istituzione della quarantena lo scorso marzo è apparsa come l’esplosione di una bolla illusoria al cui interno si celavano (finte) convinzioni in base alle quali nulla di simile a delle sospensioni di libertà personali consolidate né tanto meno al blocco delle attività professionali e produttive potesse avvenire né potesse rivelarsi necessario da questo lato del mondo. La paura avveratasi in quel frangente è stata proprio la constatazione della fallacia di tali (auto)rassicurazioni. Il carattere illusorio di condizioni considerate aprioristicamente come degli assunti all’interno di qualsiasi Paese sviluppato della società post-moderna è emerso prepotentemente, destando inquietudine e preoccupazione.
I momenti successivi al lockdown sono stati invece caratterizzati da un generale e notevole “abbassamento della guardia”, non solo da parte della società civile ma anche dal fronte istituzionale. Di fatti, durante quasi l’intera stagione estiva, tutte la attività professionali e gli esercizi commerciali sono stati riaperti e pressappoco ogni limitazione è venuta meno. La contraddittorietà nella gestione di questa fase è emersa attraverso un duplice messaggio contrapposto: da un lato la necessità di tornare a produrre e consumare a pieno regime, dall’altro la necessità di contenere i contagi, declinata però solo attraverso un generico appello alla responsabilità individuale. La ricerca di un equilibrio tra le due necessità è espressione di un tentativo istituzionale di scongiurare sia la paura di un tracollo economico che del collasso del sistema sanitario. Tuttavia, se sin dall’inizio della fase 2 le modalità in cui si è declinato tale equilibrio hanno suscitato una legittima perplessità da parte di molti, allo stato attuale risulta più che mai evidente che l’equilibrio individuato si sia rivelato nettamente inefficace. Del resto, tra la prima e la seconda ondata non è stato elaborato un piano massiccio e strutturale di potenziamento del sistema sanitario e gli interventi economici previsti sono stati a carattere meramente palliativo. Se l’estate è apparsa come una breve parentesi di allentamento delle limitazioni e delle paure a cui è conseguito immediatamente un incremento dei contagi, il ritorno a scuola ha rappresentato il colpo di grazia dal punto di vista epidemiologico, considerato che già poche settimane dopo il rientro numerose scuole sono divenute veri e propri focolai del virus. Alla luce delle enormi difficoltà che l’istruzione vive in Italia in termini di strutture (e non solo), non ci si può sorprendere se le misure prese al fine di consentire una didattica in presenza in sicurezza si siano rivelate irrisorie. Dall’inizio dell’anno scolastico alla seconda impennata autunnale prevista dai virologi il passo è stato breve.
CONTRAPPORRE SALUTE E LAVORO, UN FATTO GRAVISSIMO – Alla luce della situazione attuale, tanto dal punto di vista epidemiologico che socio-economico, emerge il dato per cui il tentativo istituzionale di ricercare un equilibrio tra salute ed economia si sia tradotto in un’impossibilità di tutela sia dell’una che dell’altra. Nessuna delle due paure può dirsi scongiurata. Il sistema sanitario è enormemente sotto sforzo e l’aggravarsi delle condizioni economiche si sta manifestando in tutta la sua gravità. In una simile situazione, non può sorprendere che sia lo stesso potere legale ad avere paura. Qualsiasi crisi economica determina, già di per sé, un impatto fortemente negativo anche sul piano politico e sociale. A tal proposito, è doveroso sottolineare che l’emergenza sanitaria in corso ha aggravato una crisi già preesistente. Tuttavia, dal momento che la crisi è anche, per l’appunto, sanitaria, la legittimità istituzionale risulta minata anche dall’estrema difficoltà, in termini sostanziali, di declinare il diritto alla salute. Né il diritto ad una vita quanto meno dignitosa né il diritto ad essere curati appaiono più scontati agli occhi degli individui. Il rischio di collasso del sistema sanitario e la percezione sempre più concreta di un imminente tracollo economico operano simultaneamente ed erodono – è bene sottolinearlo – in primo luogo non il consenso nei confronti di un determinato governo né tanto meno di una compagine politica o l’altra, bensì le stesse fondamenta dello Stato di diritto. È lo stesso assetto istituzionale attraverso cui è organizzata la società post-moderna a risultare delegittimato: sebbene sul piano formale la forma di Stato e il modello economico risultino chiari e solidi e non sussistano, per il momento, fattori tali da prendere in considerazione una loro ridefinizione nel breve periodo, a livello sostanziale tale delegittimazione è già in corso, in maniera di gran lunga più incisiva rispetto a quanto già è avvenuto più volte sia nel corso di questo secolo che del precedente, dal momento che ben due diritti fondamentali appaiono non solo minati, ma anche più che mai inconciliabili. L’antropologa Margaret Mead sosteneva che il primo segno di civiltà in una cultura non fosse la creazione di utensili, bensì un femore rotto e poi guarito: nel regno animale, la rottura di un arto equivale ad una condanna a morte dal momento che si diviene un facile bersaglio per i predatori, mentre un arto rotto e poi guarito presuppone che si è stati curati e portati in un luogo sicuro. Un simile esempio appare emblematico di come, ad oggi, sia venuta meno proprio quella dimensione di sicurezza e tutela che, in teoria, sarebbe propria di una Stato di diritto. Il regno animale cui si riferisce Mead appare in effetti simile allo stato di natura hobbesiano: una situazione di fatto distopica in cui si vive in uno stato di guerra perenne e ciascuno agisce per sé. In altre parole, una condizione in cui la paura è una costante, perché il pericolo è sempre dietro l’angolo.
GLI EFFETTI SUI SINGOLI INDIVIDUI – Se il potere ha paura della sua delegittimazione, di cosa ha paura dunque l’individuo? La questione qui appare più eterogenea. Le paure individuali sono molteplici, in parte sovrapponibili e in parte, anche in tal caso, contrapposte. La paura e l’inquietudine nel vedersi privati di libertà personali non possono che sussistere in un momento storico e in un contesto politico-istituzionale in cui queste risultano, di norma, consolidate. A tal proposito, la reticenza ad accettare alcune privazioni alla luce di uno stato di emergenza offre diversi spunti di riflessione. In molti casi essa è indice di una disabitudine a pensare in termini collettivi, ovvero a percepirsi in quanto parte di una società civile. Ciò rispecchia una tendenza individualista che, del resto, deriva direttamente dalle modalità attraverso cui è organizzata la nostra società, modalità che hanno inevitabilmente un impatto anche sulla sfera personale e psicologica. Oltretutto, in una società rivelatasi evidentemente impreparata ad affrontare un’epidemia, sarebbe legittimo ipotizzare che l’ostinazione di una parte della popolazione nel sottovalutare l’emergenza sanitaria sia proprio un modo – fallace e controproducente, s’intende – per auto-rassicurarsi. Un autoinganno inconsapevole, ancora una volta, contro la paura. È opportuno sottolineare che l’impatto psicologico della situazione non va sottovalutato, tanto per quanto concerne l’aspetto epidemiologico e dunque la paura del contagio, tanto per quanto riguarda le limitazioni alla libertà personale e le conseguenze che queste comportano nella sfera personale, relazionale, formativa ed interiore. Tutto ciò in un clima di costante incertezza, instabilità, confusione e precarietà di cui ancora non si riesce a scorgere la fine. Del resto, se già prima della pandemia vivevamo in una società che non di rado mette a dura prova la salute psichica, durante l’ondata primaverile di contagi gli psicologi avevano lanciato un grido d’allerta. Allerta che appare ora ancor più legittima, dato il ripresentarsi di una situazione di enorme stress emotivo generale. Oltretutto, la tendenza generale ad attuare misure meno restrittive potrebbe tradursi in prospettive paradossalmente ancor più alienanti di quelle passate, come dover andare a lavorare in piena pandemia, trovandosi però totalmente privati della socialità: in altre parole, vivere solo ed esclusivamente per “produrre”. O ancora, dover sostenere uno sforzo sì minore rispetto al passato in termini di privazioni, ma non più circoscritto ad un periodo di tempo determinato, bensì assai più esteso e per ora ancora indefinito, giungendo ad una sorta di normalizzazione logorante.
La paura dinanzi all’attuale emergenza, chiaramente, non si declina esclusivamente in termini psichici, bensì afferisce in primo luogo le condizioni materiali dell’individuo, dal punto di vista economico e persino biologico. L’estrema difficoltà di declinazione sostanziale di due diritti quali salute e lavoro non può che tradursi, da un lato, nella paura di vedere potenzialmente negate delle cure sanitarie; dall’altro, nella paura di non riuscire più nemmeno a “galleggiare” dal punto di vista economico.
Per quanto concerne il primo aspetto, al problema già di per sé gravissimo dei reparti Covid in esubero si aggiungono anche dei forti danni collaterali causati dallo stato di emergenza nell’ambito della cura di patologie cardiologiche, oncologiche ed ematologiche: milioni di pazienti fragili che vedono moltiplicati i tempi di attesa per gli screening. Per quanto riguarda invece il secondo aspetto, se già in seguito al lockdown primaverile le diseguaglianze sociali risultavano incredibilmente aumentate, ad oggi la paura di numerosi individui e nuclei familiari consiste persino in una difficoltà di sostentamento. Le dilaganti proteste partite da Napoli e diffusesi rapidamente in tutte le principali città d’Italia testimoniano un disagio sociale preesistente ed ora esacerbato. Il dibattito pubblico e mediatico attorno a tali rivolte si è rivelato, come avviene spesso, piuttosto superficiale e costruito all’insegna dell’opinionismo. Difficilmente ci si riesce ad emancipare da una narrazione dei fatti focalizzata sul giudizio morale a discapito di un’analisi lucida che, in quanto tale, dovrebbe vedere il suo perno nelle rivendicazioni politiche ed economiche alla base di una manifestazione di dissenso e che, in riferimento alle sue connotazioni, dinamiche e modalità, dovrebbe indagare anzitutto a partire dalle cause sociali di tali elementi. In poche parole, sarebbe bastevole trattare un fenomeno sociale come tale e non come oggetto di ragionamenti manicheistici – ben distanti da un’analisi razionale – tesi esclusivamente alla pretesa irrisoria di voler classificare un evento e, ancor di più, i suoi protagonisti come “buoni” o “cattivi”. Da Nord a Sud si sono susseguite, nelle scorse settimane, proteste eterogenee in termini di modalità: alcune fortemente conflittuali e non osservanti il distanziamento sociale, altre ritenute pacifiche e declinate nel rispetto delle norme di sicurezza vigenti. Il dato per cui, prevedibilmente, i mass media si siano soffermati di più sulle prime è indice della tendenza mediatica ad inseguire l’emotività della popolazione, strumentalizzando in tal caso la paura di trovarsi dinanzi ad una situazione di caos esacerbato anche dal rischio di rivolte e insurrezioni, ulteriore sintomo di erosione della legittimità istituzionale. Per quanto concerne la composizione delle piazze maggiormente conflittuali, l’elemento su cui è bene interrogarsi è la direzione verso cui tali proteste guardano. In ciascuna di esse sono presenti alcuni soggetti – eterogenei, a seconda dei contesti territoriali – i quali, dal punto di vista politico-sociale, rischiano di addurre una connotazione regressiva (regressiva, non “cattiva”!) anziché progressista alle proteste in termini di contenuti e finalità. Il rischio infatti, anche alla luce delle dinamiche di psicologia delle masse e della paura dilagante, è che il legame collante della società del dissenso possa risultare esclusivamente una collera non opportunamente orientata. Quando un profondo disagio sociale viene lasciato a sé stesso, non c’è da meravigliarsi se diviene sin da subito terreno fertile per la criminalità organizzata e l’estrema destra. Tuttavia, al di là di facili strumentalizzazioni, dovrebbe essere doveroso non perdere di vista il fatto che l’elemento centrale del dissenso, nella totalità delle sue manifestazioni – a prescindere dalle modalità di protesta e a prescindere anche dall’effettiva partecipazione a queste ultime, prendendo dunque in esame anche chi soffre per tale disagio pur non facendolo confluire in azioni di contestazione – risulta chiaro ed incontrovertibile: esso è rappresentato da un folto strato di popolazione che ad oggi rischia a tutti gli effetti il precipizio e a cui spettano risposte immediate ed efficaci. Non è ammissibile andare a lavorare con una pandemia in corso, ma non è nemmeno ammissibile essere costretti dalle circostanze a considerare questa prospettiva come l’unico modo possibile per poter vivere.
PAURE DIVERSE, IN UNA SOCIETA’ DISEGUALE – “L’uomo” non esiste in quanto categoria astratta e universale, bensì in quanto prodotto concreto della storia e delle sue condizioni materiali: ciascun individuo rappresenta una sintesi unica di fattori economici, politici, sociali, culturali, individuali, psicologici. Di conseguenza, anche la paura non può essere considerata in termini assoluti: c’è chi ha maggior timore del fattore clinico, chi del tracollo economico, chi dell’impatto psicologico e, chiaramente, in misure diverse. Per chi detiene la maggior parte delle ricchezze economiche, la paura dovrebbe essere invece quella di perdere i propri privilegi. Eppure proprio tale paura, tra tutte quelle su cui ci si è soffermati finora, risulta essere l’unica infondata. Se già negli ultimi decenni, in base ai dati OCSE, le diseguaglianze economiche interne ai Paesi sono cresciute a dismisura, con il Covid-19 tale divario si è ulteriormente acuito. Durante i mesi di lockdown, ad una narrazione favolistica incentrata sull’essere tutti sulla stessa barca, fortunatamente c’è chi invece sottolineava che “romanticizzare la quarantena è un privilegio di classe”. Ad oggi, tale precisazione appare ancor più centrale: come emerge da uno studio dell’Institute for Policy Studies, le conseguenze socio-economiche della pandemia hanno impoverito la maggior parte della popolazione, ma al contempo hanno enormemente beneficiato alcune categorie – di cui molte già ricche precedentemente, a cominciare dai colossi dell’e-commerce, Amazon in primis, i quali risultano, tra l’altro, già di norma fortemente avvantaggiati dal punto di vista fiscale dato che tuttora le web tax rappresentano in gran parte una lacuna normativa.
Alla luce di ciò, le istituzioni ad oggi avrebbero il dovere di prendere scelte coraggiose sia nell’ambito del contenimento del contagio che della riduzione delle diseguaglianze sociali. Non bastano misure blande, ma occorre fare tutto ciò che è necessario al fine di ridurre la diffusione del virus e tutelare la salute pubblica; d’altro canto, però, è altrettanto doveroso operare strategie redistributive tali da introdurre una maggiore equità sociale. Misure come la tassazione dei grandi capitali e delle rendite improduttive, l’istituzione di una patrimoniale andrebbero proprio in questa direzione e potrebbero rivelarsi strumenti efficaci. Non si tratterebbe certo di misure rivoluzionarie, bensì ampiamente compatibili con gli attuali meccanismi istituzionali. Tuttavia, in questo momento storico, i molteplici interessi contrapposti che si scontrano all’interno della società e l’erosione del potere politico attraverso l’influenza esercitata dai principali gruppi di interesse economico fanno sì che simili strumenti non siano neanche presi in considerazione. Quasi nessun Paese europeo, ad oggi, ha avviato un ragionamento in tal senso, fatta eccezione per la Spagna, che ha recentemente annunciato l’introduzione di una patrimoniale, seppur blanda e definita infatti “mini-patrimoniale”, proprio nell’ambito delle misure di contrasto alla povertà derivante dall’epidemia e il Belgio, che attualmente sta lavorando alla medesima decisione. In Italia, per il momento, nulla si muove in questa direzione. Nell’ambito di misure redistributive, non è in corso un “braccio di ferro” tra il potere politico e determinati interessi economici: nel momento in cui ciò si verificasse, sarebbe ad ogni modo una partita dura, dati i meccanismi di pressione di cui sopra. Laddove, da tale scontro, il potere politico ne uscisse perdente, ci sarebbe comunque da interrogarsi seriamente rispetto all’effettiva democraticità della società odierna. In questo caso, invece, il problema sta a monte, dal momento che di un simile “braccio di ferro” neanche se ne parla. Attualmente, oltre al margine di intervento statale già di per sé ridotto in questo momento storico, a mancare sembra essere la stessa volontà politica in tal senso.
Alla luce dell’impatto politico, economico, sociale e psicologico della pandemia sulla società, è logico ritenere che all’interno della stessa si produrranno non solo degli effetti contingenziali (a cui stiamo assistendo già adesso), ma anche di lungo periodo. La società è dinamica, muta costantemente. Di conseguenza, sarebbe impossibile trovarsi, all’indomani dell’emergenza, in una società perfettamente identica a prima. Il dilemma rispetto a questo è se cambierà in senso progressista o regressivo. In entrambi i casi, i cambiamenti potrebbero declinarsi attraverso processi top-down, ovvero dall’alto, a partire dalla politica istituzionale, oppure attraverso processi bottom-up, ovvero dal basso, a partire dalla società civile. A quanto pare, la prima ipotesi può essere scartata. Nello scenario attuale, le risposte istituzionali appaiono infatti tese ad un tentativo di autopreservazione, almeno apparente, della propria legittimità, senza però prendere alcun provvedimento strutturale, né in termini sanitari né in termini socioeconomici. Si vuol fronteggiare una situazione che è senza precedenti nella storia contemporanea con le medesime misure minimaliste con cui si è affrontato qualsiasi problema negli ultimi decenni: “tutto deve cambiare affinché nulla cambi”. Per quanto concerne invece i processi dal basso, alla luce del divampare delle proteste e dell’emergere delle criticità, è chiaro che qualcosa si sta muovendo. Tuttavia, resta anzitutto da vedere la continuità e l’effettiva efficacia delle contestazioni nel breve, medio e lungo periodo; in secondo luogo, il quesito principale sta appunto nella direzione del dissenso. Risulta centrale scongiurare la possibilità che questo si declini attraverso dei ritorni indietro piuttosto che dei passi in avanti: in tal senso, sarebbe necessario un orientamento dello spontaneismo che sia in grado di elevarne il livello di coscienza e di politicizzazione. Dato che il Covid-19 è giunto in un momento storico di crisi preesistente, non solo economica ma anche politica e sociale, e dal momento che tali aspetti della crisi non riguardano esclusivamente la politica istituzionale bensì la politica in senso esteso e dunque anche le strutture organizzate extraparlamentari, i movimenti e i corpi intermedi, risulta legittimo porsi dei dubbi sulla possibilità di un orientamento della contestazione in tal senso, che infatti dovrebbe operare proprio attraverso le realtà politiche di cui sopra. Una sfida dunque difficile, ma ancor di più necessaria, da cogliere al massimo delle potenzialità.
EVITARE SIA LA TRAGEDIA SIA LA FARSA – Marx diceva che “la storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa”. La percezione che la storia si stia ripetendo negli ultimi mesi, e ancor di più nelle ultime settimane, è già dilagante sebbene si tratti in realtà di una storia che non era mai finita, dato che il virus non era stato debellato. La tragedia, dal punto di vista sanitario, è tuttora in corso ed è cominciata sin dall’iniziale diffusione del contagio; dal punto di vista economico, la percezione di una tragedia imminente è più che mai diffusa. “Farsa” risulta un termine piuttosto adatto a descrivere le modalità attraverso cui le istituzioni hanno sinora declinato l’equilibrio tra salute ed economia, equilibrio che risulta più che mai inefficiente. La tragedia che sarà essenziale scongiurare è una regressione all’indomani del superamento dell’emergenza. Quanto alla farsa, questa cesserebbe cogliendo realmente l’occasione, nell’ambito della ridefinizione della società all’indomani della pandemia, per creare una società più giusta e più sicura. Sarebbe disfunzionale, in tal senso, dimenticare le paure di questo lungo periodo. Piuttosto, sarà necessario individuare misure tali da superarle. A risultare determinanti nella scelta tra un’involuzione o un’evoluzione, saranno probabilmente proprio le risposte fornite a tali paure.