“Grand Cafè Chantant” riscritto da Tato Russo, una riflessione sul teatro

Gran Cafè Chantant” di Tato Russo è più di una riscrittura dell’opera che fu di Eduardo Scarpetta. È uno spettacolo che propone e mette in scena, incarnandola materialmente negli attori, una riflessione più ampia sul teatro, sulla sua inarrestabile metamorfosi, che nell’interpretazione di Tato Russo ha i tratti decisi della decadenza.

L’opera, un vaudeville in due atti, è ambientata nei primi del ‘900, nel cuore della belle èpoque, in piena crisi del teatro classico di prosa. A raccontare lo spirito del tempo e lo stato d’animo dei grandi maestri di prosa costretti, loro malgrado, a reinventarsi, è la scenografia sul palcoscenico, che trasforma il teatro Augusteo in una sorta di sipario che si apre su un ulteriore teatro. Il gioco e la suggestione reggono agli sguardi più arditi e critici. Tutto in scena, dai costumi, agli arredi, alle luci, ai gesti, agli sguardi, richiama una crisi profonda che investe il teatro e lo costringe a mettersi in discussione. Su quest’impianto storico-culturale e sul testo originale il maestro Tato Russo immette la propria verve artistica, introducendo varianti importanti all’opera ed esaltandone tratti inediti.

Tato Russo interpreta un Felice Sciosciammocca che domina un palcoscenico in disarmo, un uomo che lo stesso autore disegna come un personaggio che vive male il suo tempo. Ad accompagnare Felice sul palco ci sono attori riottosi, quando non improvvisati, attrici, o presunte tali, attratte dalle luci del varietà e dalla voglia di diventare famose soubrettres, i tradimenti, i compromessi e le bugie, raccontate in primis a sé stessi, di un teatro che s’arrangia suo malgrado e si ridefinisce, proponendo un repertorio che pone un’interrogativo importante: si tratta pur sempre di arte? Il teatro è diventato altro da sé o invece è morto? Sono questi gli spunti di riflessioni che si nascondono tra le pieghe dei personaggi, dei loro caratteri sapientemente studiati, tra malinconia, comicità e umorismo. Tato Russo presenta tutta la vicenda in un giorno solo, ma il riferimento è all’intero periodo, che detiene la nascita, lo splendore e la miseria del cafè chantant. Eppure la storia di quegli anni sembra coincidere con i nostri giorni, come spiega Tato Russo: «Lì la crisi era determinata dal Cafè Chantant. Oggi assistiamo alla crisi della prosa per l’avvento del cabaret spicciolo». C’è molta malinconia e un certo pessimismo in Tato Russo per il quale: «Invece di correre verso l’intelligenza si corre verso il baratro. Dilaga un appiattimento dello spirito critico e l’affermazione sempre più pervasiva dell’uomo-massa, dai gusti beceri e poveri». E forse il fine ultimo della riscrittura dell’opera di Scarpetta è smuovere le coscienze addormentate, affinché si possa recuperare un’arte di inestimabile valore quale il teatro, quello autentico.

Al fianco di Tato Russo sul palco dell’Augusteo un nutrito gruppo di attori: Clelia Rondinella, Mario Brancaccio, Carmen Pommella, Katia Terlizzi, Letizia Netti, Renato De Rienzo, Salvatore Esposito, Dodo Gagliarde, Antonio Romano, Francesco Ruotolo, Caterina Scalaprice, Massimo Sorrentino, che ben si destreggiano tra macchiette, canzoni, caricature ed iperbolici percorsi di teatro. Al terzo atto lo spettacolo s’esalta, diventa più sperimentale, con un più forte richiamo al teatro contemporaneo, in un magnifico finale tutto inventato da Tato Russo ed affidato ai suoi attori, con impeccabile sintonia. Un finale emozionante e a sorpresa, in cui la settima arte, ovvero il cinema, sembra fondersi con la scena teatrale, alludendo, in maniera poco velata, all’avvento del cinema, che avrebbe segnato una crisi ancora più profonda per il già vilipeso teatro di prosa. Ed è qui che si manifesta più deciso il tocco personale di Tato Russo, che diventa graffiante e provocatorio. Centrale e complice il ruolo della musica eseguita dall’Orchestra Gran Cafè Chantant, che partecipa e diverte.

Eppure l’intera opera riscritta da Tato Russo impone una riflessione ulteriore, attuale e legata ai territori e alle loro potenzialità, spesso inespresse. Nel testo del maestro, portato in scena, luogo simbolo dell’avvento del Cafè Chantant è il teatro comunale di Pozzuoli in disuso, che l’amministrazione comunale (nella rappresentazione) vuole riportare in auge proprio allestendo uno spettacolo di luci e paillettes, tra scettisimi e critiche. In realtà la città di Pozzuoli ad oggi non possiede un teatro comunale.

Fare teatro, musica o arte in generale non risponde solo ad un bisogno espressivo. L’industria culturale genera indotto economico per numerose figure e tipologie professionali e contribuisce allo sviluppo del territorio. Le difficoltà di bilancio sono certamente un ostacolo importante, ma ci si augura che possano essere trovati i fondi necessari e una comune visione che permetta l’acquisto di un immobile comunale, che possa dare un teatro stabile alla città di Pozzuoli e insieme sia garantita una programmazione dell’offerta culturale strutturata e continuativa.

Scritto da Valentina Soria


Mi chiamo Valentina Soria, sono giornalista pubblicista, laureata alla magistrale in Comunicazione Pubblica e d’Impresa. Mi interesso di comunicazione a 360°, dal giornalismo al copy writing alla cura di uffici stampa. Amo la mia terra flegrea e credo nell’importanza di dare “voce” alle piccole e grandi criticità del territorio con coraggio ed onestà.