Ddl Zan: cosa prevede e perché le critiche sono solo strumentali

Il Disegno di Legge (Ddl) Zan rappresenta un mero atto di civiltà in un paese che troppo spesso si ostina ad ignorare le istanze e le tutele delle categorie più fragili. Uno strumento sicuramente imperfetto, migliorabile e ampliabile. Uno strumento che, in ogni caso, rappresenta un primo argine visibile alla deriva violenta, machista e becera di una parte della nostra società che, in questi anni, si è sentita sempre più libera di poter perpetrare soprusi di ogni sorta su chi è considerato più debole. Oggi, sabato 8 maggio, si terrà a Milano la manifestazione #temposcaduto per chiedere alla politica di porre fine a questo spettacolo indecoroso e avvilente.

COSA PREVEDE IL DISEGNO DI LEGGE – Il Ddl Zan (proposta che prende nome dal senatore PD Alessandro Zan), propone – in sintesi -, di ampliare il quadro delle tutele e delle pene previsto dalla Legge Mancino del 1993, che punisce frasi, gesti, azioni e slogan che incitino l’odio, la violenza e la discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali, nonché la modifica degli articoli 604 bis e ter del codice penale introducendo i reati di: misoginia (reati contro le donne), omotransfobia (reati contro le persone appartenenti alla comunità LGBTQI+) e abilismo (reati contro le persone disabili). Il Ddl Zan propone anche l’introduzione di una giornata nazionale per la lotta alle discriminazioni (il 17 maggio), un fondo nazionale da 4 milioni di euro per promuovere iniziative sociali atte al contrasto di tali comportamenti e, soprattutto, il patrocinio gratuito alle vittime di attacchi omotransfobici.

L’Italia è, ad oggi, tra i pochissimi paesi europei a non aver ancora introdotto alcuna forma di tutela specifica per l’odio omotransfobico (insieme a Moldavia, Lettonia, Ucraina, Polonia), caratterizzandosi per un altissimo livello di discriminazione contro le categorie più deboli.

IL PROBLEMA ESISTE – I femminicidi e le violenze sulle donne hanno toccato picchi straordinari. Secondo l’istituto di ricerca Eures nei primi 10 mesi del 2020 sono state uccise 81 donne e si parla di femminicidio perché queste persone sono state uccise solo perché donne. Inoltre secondo l’Istat, al 2014, il 31,5 per cento delle donne italiane (tra i 16 e i 70 anni) ha subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita, pari a circa 7 milioni di donne.

Nel 2020 l’Ilga (ovvero l’International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association), ha condotto una ricerca relativa alle condizioni della comunità LGBTQI+ stimando che in Italia il 62 per cento del campione eviti di tenere la mano del propri* partner in strada, il 30% eviti specifichi luoghi per paura di atti di odio e il 32% abbia subito aggressioni fisiche o verbali in quanto appartenente a tale comunità. Tanti e ugualmente vergognosi, poi, gli episodi di violenze e soprusi contro le persone disabili.

I numeri dell’odio nel nostro paese sono tali e tanti che riportarli acuirebbe solo il senso di sconforto e amarezza verso uno Stato che ha lasciato i più fragili nel cono d’ombra dell’indifferenza. E appare superfluo ricordare come nella maggior parte dei casi non si denunci e quindi non ci sia traccia formale di atteggiamenti e atti discriminatori o intimidatori.

CRITICHE STRUMENTALI E INFONDATE – Eppure il fuoco di sbarramento piovuto sulla proposta Zan, approvata alla Camera dei Deputati lo scorso 4 novembre, è impressionante. I fronti da cui piovono le critiche sono, sostanzialmente, due: i rappresentanti della destra e alcune organizzazioni femministe.

I primi parlano di “legge bavaglio”, asserendo che se il provvedimento dovesse essere approvato dal Parlamento, ai cittadini non sarebbe più concesso esprimersi liberamente. Peccato che il Ddl, all’articolo 4, recita: “Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime ri­conducibili al pluralismo delle idee o alla li­bertà delle scelte, purché non idonee a de­ terminare il concreto pericolo del compi­ mento di atti discriminatori o violenti”. Non è previsto, dunque, alcun bavaglio. Invece ciò che giustamente potrebbe essere sanzionato, una volta denunciato e accertato, riguarderebbe la possibilità di utilizzare parole offensive o espressioni lesive della dignità altrui, come d’altronde dovrebbe già essere in un democrazia sana.

Stesso discorso riguarda coloro che aizzerebbero le folle con argomenti simili o si macchiassero di aggressioni fisiche. Anche la Cei (la Conferenza Episcopale Italiana) non ha perso occasione per esprimersi negativamente a riguardo, chiedendo lo stop al Ddl, perché considerato “divisivo”, invocando la riapertura del dialogo tra tutte le forze politiche. Tale richiesta, condivisa da molti esponenti del centro destra, ricorda le perplessità relative alla legge sul divorzio o sull’aborto, anche quelle considerate “divisive” e di cui incredibilmente ancora se ne parla.

Le perplessità più incomprensibili non vengono da coloro che rappresentano le formazioni di destra (superfluo ricordare tutti gli epiteti misogini, transofobi e omofobi utilizzati negli anni da numerosi esponenti politici anche in carica), ma da una parte del movimento femminista italiano. A scatenare l’ira funesta di alcuni gruppi (soprattutto Arcilesbica e una parte di Se Non Ora Quando), è l’introduzione del concetto di “identità di genere”, concetto che riguarda soprattutto le persone transgender e transessuali (che, per la cronaca, non sono la stessa cosa). Le oppositrici del disegno di legge, in sintesi, temono che la legge potrebbe aprire le porte all’auto identificazione sessuale (ovvero chiunque di noi si può svegliare un dì e decidere se essere uomo o donna, in base all’occorrenza). Chiaramente, anche in questo caso, non solo il Ddl Zan non prevede in alcun modo tale ipotesi, ma è bene ribadire che per legge il percorso di transizione è costituito da una vera e propria lunga corsa a ostacoli, in cui le persone coinvolte devono sottoporsi ad anni di terapie psicologiche/psichiatriche e mediche prima di poter aggiornare i documenti (almeno 4 anni).

Fermo restando il principio assoluto secondo cui lo Stato debba sempre tutelare le persone più deboli, in ogni luogo e circostanza (come ad esempio le carceri), escludere dal disegno di legge il termine identità di genere vorrebbe dire non riconoscere l’esistenza di coloro che quotidianamente subiscono vessazioni o soprusi per il solo fatto di esistere.

Le obiezioni avanzate dalle femministe, spesso definite Terf (Trans-exclusionary radical feminism), cozzano non solo con il comune buonsenso, ma soprattutto con la necessità di proteggere sia la comunità LGBTQI+ sia le stesse donne. E se considerare la popolazione femminile come una minoranza sarebbe un grave errore è, al contempo, opportuno ricordare l’elevatissimo numero di donne soggette quotidianamente a violenze (fisiche o verbali) e soprusi che ancora una volta rimarrebbero vittime anche dell’inazione dello Stato.

LA VERA SFIDA: UN CAMBIAMENTO CULTURALE – Se il Ddl Zan venisse approvato, di sicuro, tali numeri non cambierebbero d’improvviso. Di sicuro il cambiamento culturale di questo paese non lo si risolve con un unico provvedimento, ma altrettanto di sicuro tali categorie di persone potrebbero contare su tutele formali e sostanziali. Il Ddl Zan, con tutti i suoi limiti, rappresenta l’ennesima battaglia di civiltà in un paese troppo spesso retrivo, in cui la cultura patriarcale è davvero dura a morire e dove l’indifferenza sociale determina immobilismo e sofferenze per grandi fette di popolazione. Oggi è #temposcaduto.

di Veronica Cirillo

Scritto da Redazione